Sulla realtà delle valli prealpine friulane in particolare del bacino del torrente Torre.
Articolo è stato pubblicato il 5 febbraio 2016 sul blog: durigatto – qui riportato nel mese di luglio 2024
di: Dino Durigatto
Cercare di comprendere alcuni passaggi della recente storia friulana senza dover essere un esperto, ma da cittadino qualunque che raccoglie quanto l’informazione, la scolarizzazione, il proprio interesse e la società sono alla base della riflessione sulla condizione friulana dal 1945 alla fine degli anni 1975 (pre terremoto).
Sappiamo bene dell’emigrazione, grazie alla memoria diretta e all’abbondante letteratura disponibile. (L’emigrazione temporanea dal Friuli, Cosattini 1903 – Friuli migrante, Zanini 1937, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, Gino di Caporiacco 1960, Emigrazione e rientri, Elena Saraceno, 1981). Come questa abbia segnato la storia del novecento, in particolare e per nostro interesse, il secondo dopoguerra. Il nuovo assetto mondiale, la contrapposizione dei blocchi, il capitalismo ed il suo successivo consumismo, il boom economico italiano, il cambiamento della società, la modificazione della figura tradizionale del contadino e del montanaro (boscaiolo).
La presente analisi parte dalla curiosità di base del cittadino privo di competenze dirette sulla materia di cui si parla. Per questo si può pensare che non abbia alcun senso prendere in considerazione voci prive di “autorevolezza”. Tutto vero, ma è questo quanto annunciato in precedenza. Vediamo cosa la società ha comunicato alla memoria collettiva e a chi, disponendo di una propria capacità di vedere, ha cercato di comprendere.
Riflettiamo sulle piccole valli delle prealpi Giulie e su quanto è accaduto per quelle genti, dalla fine del secondo conflitto mondiale fino ad oggi. Ci riferiamo ad una piccola porzione di Friuli, molto fragile, come lo sono queste valli a ridosso dell’attuale superato confine con la Slovenia. Jugoslavia al tempo dei fatti. Si tratta della valle di Resia, delle Valli del Torre e Cornappo, dei monti sopra Faedis, Torreano e fino alle valli del Natisone. Tutto in un contesto assolutamente da non trascurare: un territorio alla fine di un conflitto in cui l’Italia era per metà una nazione sconfitta; per metà riscattata, grazie alla guerra di resistenza e alla sconfitta del regime monarchico, del governo fascista e la nascita della repubblica democratica. Mentre il fascismo, invece, perdura e dilaga all’interno di ogni forma sociale che si trova in una fase di decadenza. Infatti in questi casi, manifestandosi con attenzioni rivolte alle parti sociali più deboli, promette forme di protezione conservatrici funzionali al mantenimento dei privilegi delle classi dominanti, fatte passare come riscatto del popolo. Situazione molto attuale, come possiamo constatare nelle cronache e nei fatti del presente.
Da alcuni anni sono stato coinvolto nelle attività d’orientamento culturale e sociale che si sono sviluppate nelle borgate, oggi spopolate, di Stella, valle dello Zimor. Conoscevo il luogo fatto di case abbarbicate dove era possibile lungo la cima dell’omonimo monte. C’ero stato qualche volta e non conoscevo la storia del luogo. La frequentazione mi ha permesso di sapere cosa è accaduto nel periodo che ci interessa grazie ai dati tratti dalla pubblicazione: A guardar quella chiesina dal Piano, di M. Cragnolini – 2002. I borghi di Stella nel 1920 contavano 600 abitanti che diventavano, con leggeri movimenti altalenanti, 532 nel 1949. Da qui in poi, un continuo, inesorabile depauperamento portava a soli 208 abitanti all’inizio del così detto boom economico (nascita del consumismo). Oggi, 2024, nelle tre borgate alte di Stella sono rimaste 3 persone, mentre nella borgata di Malemaseria, la più a valle, risiedono circa 9 persone.
Fin qui i dati e i contesti, ma ciò che sorprende è come ci fossero oltre 500 persone in uno spazio montano che non dispone di aree pianeggianti e tutto era organizzato su terrapieni contenuti da muri a secco. Oltre alle case, altra domande legittima è di cosa vivevano? La risposta va intuita, appena si sono presentate opportunità migliori subito sono state colte, seppur con rimpianti per i villaggi natii. Un dato sui flussi migratori riporta che dal 1946 al 1970 circa 364.000 persone hanno lasciato il Friuli Venezia Giulia (Valussi 1974).
Il terremoto del 1976 colpì duramente le borgate di tutta la val Zimor e ci furono anche delle vittime. Le case semplici, di sassi tenuti insieme da malte povere, crollarono o dovettero essere demolite. Altro fattore che ha favorito il continuo spopolamento.
Un aiuto per capire come era sviluppato il paese è stato possibile grazie alle testimonianze supportate da un paio di vecchie fotografie raffiguranti il borgo principale. I resti dei muri e delle poche case ricostruite hanno permesso di cogliere le linee dei perimetri dei borghi fatti di abitazioni collegate tra loro con perimetri molto piccoli (es. 5 x 3 m) e che si sviluppavano in altezza fin dove era possibile.
Il quotidiano, possiamo intuire, era fatto di duro lavoro manuale da parte di tutti, uomini, donne e giovani e alla fine, la scarsa circolazione di denaro, era perdurante ragione di miseria. Le borgate sui pendii del monte Stella erano di ceppo slavo, dotate di un dialetto, il Ponasin, diffuso in tutta l’alta valle del Torre.
In ogni caso e al di là di ogni storia, resta il fatto che per almeno cento anni, una media di 400 persone hanno vissuto, creato, edificato, modificato quel luogo dimostrando che, seppur con grande fatica e disagio, una possibilità c’era e con essa i valori di conoscenza del rapporto uomo, natura, in una realtà dove la scolarizzazione era minima.
Sul dopoguerra nei territori friulani e giuliani, esiste un’ampia letteratura esaustiva su fatti storici, passaggi, scelte politiche e sulla questione Trieste e Zona B. Questo sottolinea che ci troviamo di fronte a un confine non facile, quello orientale. Come noto, la rivendicazione slava dei territori fino al Torre, con Tito dalla parte dei vincitori, era molto forte. Confine, condannato in quegli anni, a diventare “estremo”. La cortina di ferro era qui, nelle nostre prealpi Giulie e nel resto della regione.
Valichi ben diversi da quelli del vicino Cadore con l’Austria, da quelli dell’Alto Adige con la sua travagliata vicenda. Completamente diverse, invece, possiamo immaginare le frontiere delle regioni con la Svizzera (neutrale) e della Francia. Ma questo era il nuovo assetto mondiale e con esso quel che ne comportava.
Mentre a occidente tutto diventava moderno e possibile il confine orientale era davvero una barriera estrema. Tanto da essere fortemente assoggettata, per decenni, alle servitù militari. Sono tuttora noti i cartelli stradali indicanti il divieto di scattare fotografie, presenti lungo le strade e in tutti i centri abitati di queste valli. Segnali rimasti operativi fino alla metà degli anni 1980.
Confine di ferro dove da sempre i valligiani comunicavano, per gli scambi economici e sociali, con le comunità delle vallate vicine, al di là dei linguaggi e della competenza giuridica. Confine che, dopo diverse proposte, trovava la sua attuale definizione (con le conferenze di Pace di Parigi e New York nel 1946 e di nuovo a Parigi con la firma sul Trattato di Pace tra Italia e Jugoslavia del febbraio 1947. Questione di Trieste a parte). Le piccole valli delle prealpi Giulie, impoverite già dal primo dopoguerra, dall’emigrazione, dai nuovi confini soggetti alle servitù militari, dalla mancanza d’investimenti civili da parte dello Stato, vedono aumentare la velocità del loro profondo declino. Ricordiamo che agli sbocchi di tutte queste vallate ci sono dei paesi che ne raccoglievano le esigenze, fornivano servizi e tenuta della struttura sociale.
I friulani diventarono vittime sacrificali della nuova Italia democratica, bandiera del nuovo modello di sviluppo economico. Più di tutti però a subire sono i friulani che vivevano nei paesi e nelle vallate povere, strette tra montagne, con passaggi difficili; perfette per fare da confine estremo dove bastava mantenere le vie di comunicazione esistenti, ponendo sempre attenzione alle regole di servitù militare, anche suggerite dalla presenza della base americana di Aviano (Nato).
In queste valli, lo stato, non dispose grandi investimenti infrastrutturali, in fondo non si confinava con paesi alleati, qui si doveva fare il minimo e le popolazioni, forse ignare, ma consapevoli che il Friuli non dava loro sbocchi… si sacrificarono abbandonando, progressivamente, i loro paesi. Ricordiamo anche che l’accettazione da parte dello Stato della regione FVG a statuto speciale, è stata ottenuta grazie al lavoro ostinato di politici illuminati del periodo, con la Legge costituzionale del 31 gennaio 1963.
Ritorniamo a Stella, luogo incantevole d’inusitata bellezza, con una vista panoramica sul Friuli e oltre. Stella dove resta ancora viva la testimonianza chiara di quanta bellezza abbiamo da recuperare dal nostro ambiente. In questo luogo, lungo una vecchia carreggiata, troviamo testimonianze che rivivono oggi, come la realizzazione di una Via Crucis nel bosco. Esperienza da cui ha preso vita un’associazione onlus con vari compiti statutari, tra cui un’iniziativa culturale che vuole – per un paio giorni in agosto – divulgare una riflessione sulla “condizione di resistenza” delle valli prealpine del Friuli, perché possa esistere e formarsi una testimonianza fatta non solo del passato e di testimonianza storica, ma di stimolo, di analisi, per un riscatto dei luoghi, propositivo e rivolto al futuro.
Oggi, nell’attuale profonda crisi del modello economico occidentale capitalistico, a causa delle sue trasformazioni, dei mercati globalizzati e in parte foriero della condizione del decadimento (forse anche fisiologico) delle valli prealpine, ci obbliga a individuare nuove forme di sviluppo e di economie diverse da quelle conosciute fino a ieri. In particolare tutti siamo chiamati ad affrontare le grandi trasformazioni sociali che stiamo vivendo, con sempre maggiori drammi sociali. Mentre siamo ancora lontani dall’individuare, all’orizzonte, una reale possibilità di sbocco.
A stella si cerca di portare l’attenzione su un semplice aspetto: se c’erano 500 persone, non tutto può essere perduto, soprattuto se partiamo dall’ambiente. A cui aggiungiamo il patrimonio delle conoscenze ancora presenti, assieme alla memoria dei residenti.
Significa cultura fatta di materia boschiva, amore vero per gli alberi, la vita del bosco secondo le fasi stagionali e lunari. La storia del luogo, con le sue equilibrate, faticose risorse locali, come la cava di pietre per costruire le case e la fossa della calce pozzolana, ma anche la gestione dei pozzi per l’acqua, le coltivazioni e gli orti recuperati su pezzi di terreni disposti a gradoni. I vecchi pascoli prativi laddove ora regna sovrano il bosco e tante esperienze di chi conosce la terra con i suoi odori e le sue sudate gratificazioni.
Tutto questo è cultura della pratica, da applicare, da insegnare, per lasciare una possibilità al futuro di cui si sente fortemente bisogno. Cultura della terra, condivisa, alla quale sarà facile agganciare le varie fasi di ogni altra conoscenza erudita, perché nascerà dalla naturale evoluzione dei saperi.
Un progetto aperto, condivisibile in tutte le valli friulane dove sono importanti le storie, i ricordi di chi ha vissuto, di chi vive, riportando le voci, le narrazioni, gli idiomi, attraverso i giorni dei tempo, affinché esista un continuo collegamento tra passato e presente.
Gratitudine per quanti ancora oggi resistono, a tigni dur, in particolare alle giovani realtà che coltivano nuova consapevolezza. Loro si mettono in gioco e credono – come noi – in un futuro possibile nelle valli strette e povere dove c’era un confine troppo ideologico.
L’iniziativa “Stella in Agosto”, favorisce l’incontro tra giornalisti, boscaioli, orticoltori, musicisti, gente, valori, mestieri vari e artisti. Insieme, cercano di raccontare con semplicità, i messaggi che arrivano dal contatto con la natura. Dal 2013 SPINGIAMO SUL tema della “cultura della terra, tra conoscenze e mestieri”. Uno sprono partito dal basso, dalla caparbietà e dall’intelligenza di alcuni visionari che intendono portare lassù, nel nulla, quel seme di speranza di cui tutti abbiamo bisogno: un domani dove esista un rapporto equilibrato tra montagna, ambiente e vita.
Una società responsabile è orgogliosa del rispetto per la natura che sa evolversi al ritmo delle nuove tecnologie informatiche utili a tutti. Per essere capaci di rendere il montanaro di Stella, o quello di Platischis e altrove, collegati al boscaiolo di Slovenia, Carinzia e del Tibet. O al grande mercato di future borse economiche attente al valore uomo, al posto di ogni speculazione.